“Meno numeri più relazioni”. L’Italia dei cittadini ospitali

Con una vista acuta e lungimirante, prima ancora che si parlasse di impatto turistico sui territori, Federico Massimo Ceschin, presidente nazionale Simtur (Società Italiana professionisti mobilità e turismo sostenibile), già ragionava sul concetto di turismo sostenibile. 

Custodire, avere cura e connettere, sono le sue parole chiave, e parla di ‘economia dei visitatori’, un concetto che ha ispirato un suo elaborato. Cecchin è anche ambasciatore del patto europeo per il clima e con lui affrontiamo il tema di over-tourism con un’acuta lente di ingrandimento.

Presidente Ceschin, i dati globali parlano chiaro: nel 2040 si supereranno i 2,4 miliardi di arrivi turistici. L’Italia passerà da 134 a oltre 220 milioni. È una crescita da festeggiare o da temere?

«Entrambe le cose. Da un lato è una conferma della forza attrattiva del nostro Paese, dall’altro una sfida enorme. Se continuiamo con il modello attuale, con l’80% dei visitatori concentrato nel 20% delle destinazioni più iconiche, rischiamo di logorare i territori e allontanare proprio quella autenticità che il viaggiatore cerca. Venezia, Firenze, Roma o le Cinque Terre non possono reggere da sole l’intero peso del turismo internazionale»

Lei parla spesso di “economia dei visitatori”. Cosa significa concretamente?

«È un cambio di paradigma. Finora abbiamo parlato di turismo di massa, misurato in numeri, presenze, arrivi. Ma il turismo non può più essere solo un conto di teste e pernottamenti. 

L’economia dei visitatori è un approccio più ampio, basato sul principio human to human. Vuol dire mettere al centro la persona, non solo il turista, ma anche lo studente fuori sede, il pendolare, il parente in visita, il manager temporaneo, l’escursionista. Tutti coloro che si muovono fuori dal proprio ambiente abituale e che, con la loro presenza, generano valore economico, sociale e culturale. È un’economia delle relazioni, non dei flussi».

E in questo scenario entrano in gioco i “cittadini ospitali”. Chi sono?

«Sono i veri protagonisti della transizione che stiamo vivendo. I cittadini ospitali sono persone che vivono nel territorio e che, in modo diretto o indiretto, ne rappresentano l’anima accogliente. Non sono semplici gestori di B&B o case vacanza. Sono mediatori culturali, ambasciatori del territorio, promotori di esperienze autentiche. 

L’ospitalità, oggi, non è più un servizio passivo o un affare commerciale: è una forma di cittadinanza attiva.
Accogliere qualcuno significa generare relazioni, condividere saperi, costruire fiducia. Significa anche avere cura della comunità e del luogo in cui si vive».

Quindi il turismo può diventare una leva di rigenerazione sociale?

«Assolutamente sì. Se ben gestito, il turismo può rigenerare comunità e territori. Quando un visitatore incontra un cittadino ospitale, non trova solo un letto o un pasto, ma un racconto, un’identità, un legame. Il cittadino ospitale contribuisce a rafforzare il senso di appartenenza, stimola pratiche sostenibili e riattiva economie locali spesso dimenticate. È un processo che trasforma il viaggio in esperienza di crescita, sia per chi arriva sia per chi accoglie».

Lei ha applicato la “piramide di Maslow” ai bisogni del viaggiatore. Ce la spiega?

«L’idea è semplice ma illuminante. Alla base ci sono i bisogni primari: dormire bene, mangiare bene, sentirsi al sicuro. Poi emergono i bisogni di appartenenza e di relazione, il desiderio di sentirsi accolti, di fare parte di qualcosa. Ai livelli più alti ci sono la stima e l’autorealizzazione: la ricerca di autenticità, di esperienze che arricchiscano, di incontri che lascino un segno. È su questi piani che l’Italia ha il suo vantaggio competitivo naturale: nella capacità di offrire esperienze umane e culturali profonde».

Ma oggi il dibattito pubblico è dominato dalle polemiche sull’overtourism. È davvero colpa delle piattaforme di affitti brevi?

«È un errore cercare un colpevole unico. I dati europei ci dicono che l’80% delle notti turistiche si concentra ancora negli hotel tradizionali. L’extralberghiero, invece, distribuisce i flussi in modo più diffuso e capillare. Il problema non è dove dorme il turista, ma come costruiamo il sistema. Serve un approccio integrato: regole chiare, equilibrio tra residenti e visitatori, una visione che premi la qualità e la sostenibilità. Non servono divieti, serve governance. Le piattaforme digitali possono diventare alleate se le inseriamo in un modello che valorizzi la responsabilità e la collaborazione locale».

Quali azioni concrete può compiere un cittadino ospitale per contribuire a questo cambiamento?

«Bastano piccoli gesti quotidiani: proporre esperienze autentiche, fornire informazioni sulla mobilità sostenibile, curare il benvenuto con prodotti locali, offrire spazi per lo smart working o collaborare con altre strutture per creare itinerari condivisi. Ma soprattutto serve rete. Il futuro dell’ospitalità diffusa passa dalla capacità di fare sistema: condividere esperienze, costruire piattaforme digitali locali, promuovere la qualità insieme.
Il Vivere di Turismo Festival rappresenta un’occasione per mettere in rete operatori, istituzioni e comunità: un laboratorio di turismo rigenerativo».

Il 2025 segnerà la fine della “rendita di posizione”?

«Sì, e direi che è anche una buona notizia. Il turismo fondato sulla rendita di posizione – cioè sull’idea che basti avere il mare o un monumento per attrarre visitatori – è finito.
Ora serve visione, programmazione e intelligenza dei dati. Dobbiamo investire nella tourism intelligence, nella capacità di leggere in tempo reale i flussi, i comportamenti, le esigenze. Meno numeri, più relazioni. Meno reddito immediato, più progettualità. Meno bagnasciuga e più entroterra: luoghi veri, vissuti, capaci di restituire senso e valore al viaggio».

In definitiva, come immagina il turismo del futuro?

«Lo immagino umano. Un turismo intelligente, che non misura il successo in presenze ma in legami. Un turismo che non consuma i luoghi, ma li comprende. Che restituisce qualcosa ai territori e li aiuta a crescere. In fondo, il viaggio è sempre stato un atto di conoscenza. Oggi abbiamo solo il compito – e la responsabilità – di renderlo anche un atto di reciprocità».

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