Danilo Messineo è uno dei due co-fondatori del Festival dell’Ospitalità, giunto quest’anno alla sua decima edizione. Si svolge in Calabria, a Nicotera, dopo un inizio a Roma. Ma i luoghi spesso fanno gli eventi e il successo degli stessi: non è uguale ovunque.
Nicotera, per il Festival dell’Ospitalità, è proprio il luogo giusto per esprimere il concetto che viene celebrato. L’evento, infatti, nasce dal desiderio di ispirare cittadini, curatori e comunità a vivere e praticare l’ospitalità non solo come industria turistica o ‘mestiere’, ma come valore universale, qualcosa che nel tempo si è un po’ smarrito, come ci ha raccontato Danilo in questa chiacchierata.
Parliamo un po’ del festival, delle sue origini…
“Tutto – racconta Danilo – è iniziato in modo molto semplice: dieci anni fa io e Francesco Biacca fummo invitati a un evento dove dovevamo tenere dei workshop. Francesco si occupava di marketing, io invece lavoravo in albergo. Ero nel pieno del settore, ma anche in crisi: sentivo di soffocare in un mondo fatto solo di strategie tecniche e poca umanità. Avevo la fortuna di gestire un piccolo hotel a Roma, Villa Pirandello (zona Villa Torlonia), i cui proprietari mi avevano dato carta bianca. Da lì è cominciato tutto.
Mi sono reso conto che il vero punto di forza dell’albergo erano le persone. Senza strategie, solo con l’istinto e una forte componente umana, avevamo creato un luogo dove la relazione era centrale.
Racconto sempre questo aneddoto: nella prima gestione, con un servizio imperfetto ma un’anima autentica, avevamo un punteggio di 9.3 su Booking. Nella seconda gestione, tutto era perfetto – arredi, comfort, efficienza – ma l’umanità si era un po’ persa, e con essa anche la magia del luogo. Da lì ho capito che nessuna strategia vale più di una relazione autentica”.
E quindi, da quella esperienza, da quel racconto è nata l’intuizione?
“Esatto. Da quell’esperienza nacque l’idea del Festival dell’Ospitalità. Ci accorgemmo che nel mondo del turismo si parlava di tutto, ma non del cuore del turismo stesso: la relazione tra persone. Francesco, con il suo pragmatismo da ingegnere, mi disse: “Facciamolo noi.” E così è stato.
All’inizio fu difficile: la parola “ospitalità” non era ancora di moda e molti ci contattavano pensando che si trattasse di eventi religiosi. Perché, in realtà, l’ospite – nella sua accezione originaria – è colui che non conosciamo, e che per questo va accolto come un dono, persino come un riflesso del divino”.
Cosa c’è dietro alla scelta del luogo, la Calabria?
“Sia io che Francesco – continua Danilo – siamo calabresi, di Reggio Calabria. Fin da subito abbiamo sentito il bisogno di restituire qualcosa alla nostra terra, un luogo più fertile per inserire semi nuovi, anche dal punto di vista culturale e sociale.
Così il Festival si è spostato in Calabria, dopo le prime esperienze a Roma e Scilla, trovando la sua casa a Nicotera. A Nicotera abbiamo trovato ciò che mancava: una comunità viva, capace di partecipare, condividere, cucinare, accogliere.
L’evento simbolo del Festival è il pranzo della domenica, una grande tavolata in piazza con oltre 150 persone: la comunità locale, i relatori, gli ospiti, i passanti.
Ognuno porta un piatto in più – o, come si dice in Calabria, una “teglia” in più – per chi arriva da fuori. È il gesto più autentico di ospitalità”.
Comunità ospitale: si nasce, si diventa o si sceglie?
“Secondo me tutte e tre le cose. Siamo ospitali per natura, perché l’essere umano nasce per la relazione. Ma si può anche educare all’ospitalità: insegnare a vedere l’altro, ad ascoltare, a comprendere che la relazione è un dono.
A Nicotera, l’accoglienza non è stata una strategia di marketing: è nata spontaneamente, come gesto naturale di una comunità viva e vera. L’ospitalità, in fondo, è una rivoluzione gentile. Viviamo in un’epoca in cui l’altro è percepito come una minaccia: il competitor, il diverso, l’avversario. Invece l’ospitalità ci costringe a incontrare l’altro, ad aprirci, a guardare il mondo attraverso i suoi occhi. C’è una parola sudafricana bellissima: sawubona, che significa “Io ti vedo.” E la risposta è ‘Io ci sono’. Ecco, questo per me è il senso profondo dell’ospitalità: vedere davvero l’altro nella sua interezza”.
Il turismo quindi, rappresenta un confine tra culture e, di conseguenza, diventa lo stimolo per una nuova consapevolezza?
“Il turismo non è una risorsa, è uno strumento. La vera risorsa sono i territori e le comunità. Viviamo in un mondo in cui i confini vengono vissuti come barriere, ma in realtà sono i luoghi dell’incontro. Il turismo dovrebbe tornare a essere questo: uno spazio di scambio, di conoscenza, di crescita.
Essere cittadini ospitali significa accettare un ruolo ibrido: essere al tempo stesso host, abitante, viaggiatore. Significa ascoltare, vedere, mettersi al servizio di qualcosa di più grande: la relazione. Perché, come dico sempre, ‘Il modo in cui tratti l’altro è il modo in cui decidi in quale mondo vuoi vivere’”.
Cos’è il Festival oggi?
“Il Festival dell’Ospitalità non è un evento di massa. È un evento umano, intimo, fatto di incontri veri. Ogni anno circa 150 persone si ritrovano per tre giorni, in un territorio reale, aperto, per fare una sola cosa: incontrarsi. Ed è in quell’incontro che ogni volta nasce qualcosa di nuovo”.
E il cittadino ospitale?
“L’ospitalità, oggi, è forse l’atto più rivoluzionario che possiamo compiere: non un gesto di cortesia, ma un atto politico e culturale di riconnessione con l’altro e con noi stessi”



